a cura di Enzo Orlanducci
prefazioni di Anna Maria Isastia
e Maria Immacolata Macioti
2005 – pp. 176 – Edizioni ANRP
Idee del solito compagno di antiche (s)venture
In più occasioni mi sono soffermato a pensare all’eredità che la mia generazione, la generazione protagonista degli eventi della seconda guerra mondiale, dovrebbe lasciare, lascerà, alla cosiddetta “nuova generazione”, cioè quella dei ventenni di oggi, degli adulti di domani.
È un lascito di sofferenze e di dolore, ed allo stesso tempo di ricordi importanti, di testimonianze e di scelte che noi, allora ed oggi, ritenemmo e riteniamo fondanti. Tutto questo può, però – mi sono chiesto – avere un valore per giovani donne e giovani uomini che vivono un presente così diverso, e così lontano, dal nostro?
Può essere un insegnamento, un incoraggiamento, un affettuoso monito?
E se sì, in che modo, in quale senso?
Nel farmi queste domande, mi sono reso conto che, nel nostro ricordare, nel nostro “trasmettere”, c’è stato, e c’è oggi, un vuoto generazionale.
Quando tornammo dal lager non raccontammo, non comunicammo la nostra esperienza, e questo avvenne perché tutti, attraversata la bufera, avevano solo voglia di ricominciare, ritrovarsi ed identificarsi. L’ansia, l’emozione della nostra personale “ricostruzione” volle dire in primo luogo rimozione, cancellazione, oblio. Per andare avanti, anzi per cominciare una nuova vita in un paese nuovo, che noi dovevamo contribuire a costruire – cominciando dalla democrazia, e noi, nati e cresciuti sotto il fascismo, non sapevamo neanche cosa fosse – avevamo bisogno di dimenticare il deserto freddo, la fame, le botte, le umiliazioni, il silenzioso dolore collettivo, individuale, assoluto, del lager.
E così la generazione che venne dopo di noi, quella dei nostri figli, venne privata del nostro racconto, come emerge dai loro ricordi registrati nella ricerca presente in questo volume. Forse perché ritenemmo che a loro, di diritto- un diritto per il quale noi avevamo pagato pegno – dovessero essere risparmiate le sofferenze che avevamo patito noi, perché noi, per loro, avevamo costruito un mondo miglior.
Oggi raccontiamo, con una nuova ansia ed una nuova emozione, quelle di chi sa di non avere più molto tempo. Raccontiamo per dovere – è la nostra eredità – ma, allo stesso tempo, rivendichiamo la memoria come un diritto, che allora ci fu negato e che noi stessi ci negammo.
Di fronte a noi, ad ascoltarci, attenti e curiosi, ci sono i nostri “nipoti”, questa nuova generazione che indaga per conoscere e per capire ciò che fu la nostra vita alla loro età, per comprendere, anche, da dove essi stessi vengono, se è vero, come è vero, che tutti siamo, prima di ogni altra cosa, il frutto del nostro passato. Il nostro racconto, spontaneo e naturale, a volte confuso, a volte dettagliatissimo, è per loro la fabula – alla latina: un po’ racconto, un po’ mito – migliore perché più umana, più intensa, insomma più vera. Ed anche noi siamo più pronti, oggi, a ricordare, a raccontare, a permettere che questi “nipoti” scavino e “spulcino” nel nostro bagaglio – personale ma anche, per chi non c’è più, collettivo – di ricordi e di emozioni.
È il ricordo di un giovane che allora non poté essere tale, perché la giovinezza gli venne negata e strappata nell’esperienza crudele del lager, di un giovane che allora dovette crescere di colpo per forza di cose, perché il coraggio, la capacità, la volontà di dire NO, decine e decine di volte NO, poteva venire solo da una consapevolezza responsabile, una decisionalità adulta, capace di persistere, idealmente, politicamente ma anche fisicamente, in quel NO. Il giovane di allora – e cioè io ed i “sopravvissuti” come me – trasmette questo ricordo al giovane di oggi, rivedendosi in lui.
E allora trovo la risposta alle mie domande, capisco il senso ed il significato della nostra “trasmissione di memoria”. È una loro richiesta, è la loro scelta, testimonia la libertà di cui godono oggi. È un’esigenza, sentita intimamente da questa generazione, che ha capito, senza bisogno, anzi proprio al di là, di qualsiasi discorso altisonante e retorico, che le scelte fatte da noi allora – il NO, per l’appunto – sono i fondamenti della loro vita libera di oggi. Quelle nostre conquiste, però – questi giovani “moderni” e difficilmente “contemporanei” hanno capito anche questo – non sono per loro un patrimonio eterno ed indissolubile, ma, anzi, vanno quotidianamente ribadite e riconfermate, in un certo modo “riconquistate” nel mondo di oggi, il loro mondo, pur così diverso e lontano dal nostro. E noi, da buoni “vecchi saggi” – ma senza pedanteria – regaliamo loro la nostra esperienza in cambio della possibilità, che essi regalano a noi, di un bellissimo ricordo di gioventù.
Antonio Sanseverino
Presidente Nazionale GUISCo